Grandi sfide e dopamina

Diciamolo subito: io ho il 46 di piede e delle manine altrettanto modeste. Usare i ferri del 2 mm non è una passeggiata, una cosa che puoi fare la sera, di rientro dal lavoro, tra un drink e l’altro, con un sottofondo di musica classica. Maneggiare i ferri del 2 mm è piuttosto un lavoro di estrema concentrazione, ci vuole qualcuno che nel frattempo ti tamponi il viso e ti sussurri: vai vai, ce la puoi fare!, mentre una pizza con doppia mozzarella si cucina in forno come premietto finale.

Non avevo mai provato a costruire un pupazzo ai ferri prima, e nemmeno ad utilizzare dei ferri così sottili. È una vera sfida. Ci sono tanti passaggi nuovi e concetti oscuri alla prima lettura. Fortunatamente il filato è meraviglioso e il pattern di Myrtil Bear molto chiaro; dove non basta la spiegazione scritta, attingo come sempre a YouTube. Nei punti più difficili faccio delle prove a parte, con ferri più grandi. Ho scoperto questo escamotage, in effetti ovvio, solo recentemente: mi permette di affrontare il lavoro definitivo con meno tensione e più confidenza.

Sto imparando nuove tecniche, come: tirar su i punti direttamente dalla trama della maglia rasata (per iniziare le orecchie), la chiusura ad ago Kitchener Stitch (per chiudere il margine superiore delle orecchie), inserire gli occhi nel lavoro e principi di ricamo (per ricoprire il naso e disegnare la bocca con del filo nero). Ho anche ripassato i ferri accorciati, che è sempre buona cosa.

Non lo nego, è stata dura. Per ogni orecchio ho impiegato circa 45 minuti. Ho proseguito lentamente, nel timore di fare cadere uno dei ferri, sostenuti a stento da 4 punti alla volta. A volte mi sono un po’ perso d’animo, ho lanciato un paio di gomitoli attraverso la stanza, ma non ho mollato. Mi sono anche chiesto, con frustrazione dilagante, a malapena tenuta a bada da diversi biscotti scozzesi al burro: ma chi te l’ha fatto fare, ma non potevi proseguire con le piastrelle grigie e buona notte? Che dire… mi piace variare, mi piacciono le sfide, mi piace imparare cose nuove, migliorare, stupirmi e rimanere soddisfatto. Sì, perché le sfide sono questa cosa qui: mettersi alla prova e insistere finché non ci si riesce. Perché lo facciamo? Per il senso di soddisfazione che arriva alla fine, per poter dire: ce l’ho fatta!

C’è anche una base biologica a tutto questo. La vittoria finale, il senso di riuscita, la soddisfazione nel vedere un manufatto realizzato personalmente alimentano un circuito cerebrale chiamato sistema della ricompensa o reward system. È un network di neuroni molto antico, che funziona prevalentemente tramite un neurotrasmettitore chiamato dopamina. Si attiva in varie occasioni: quando otteniamo un premio esterno per i nostri sforzi, quando le nostre azioni generano risultati ritenuti positivi, quando il nostro ego viene rinforzato.

È un sistema davvero figo, che dei pro e contro, perché anche stimoli potenzialmente sfavorevoli possono accenderlo, ad esempio scofanarsi un chilo di gelato davanti alla serie TV preferita o scommettere che Palomo arriverà al traguardo prima dei suoi cavalli rivali.
Quello di proporsi nuove sfide basate sul sé è un metodo piuttosto sano per attivare il circuito della ricompensa. Miriamo a 10 km di corsa, ad imparare una nuova lingua, ad un pupazzo tutto col ferro del 2 mm. Selezioniamo bene e proviamoci, per davvero però. I primi risultati già anticipano la gratificazione finale.

Le maniche

Io lavoro il busto per primo perché lo trovo più vago e quindi più noioso delle maniche. Cresce lentamente, non ho un punto di arrivo certo, va provato diverse volte per capire se ci siamo con la lunghezza e posso partire col bordo inferiore o meno. Tira di qua, liscia di là, guardati allo specchio, davanti, dietro, boh. Non sono mai sicuro. Spesso sbaglio. Una rottura insomma.

Lascio le maniche per ultime. Ho la sensazione di controllarne meglio lo sviluppo, perché all’inizio della prima manica, grazie ad una formula che ho ormai reso universale tramite un foglio di calcolo su Excel, riesco a calcolare con precisione quante diminuzioni dovrò effettuare per arrivare ad una certa circonferenza, prima di iniziare il polsino. Quindi mi costruisco una tabella con, nella prima colonna, il numero di giri da lavorare in piano + quello in cui effettuare le diminuzioni (solitamente il sesto o settimo), e nella prima riga il numero totale di di volte in cui ripetere il tutto. Poi via di spunte in ogni casellina.

La ricetta è infallibile, e arrivo giusto giusto con i ferri circolari all’ultima diminuzione prima di iniziare il polsino.

Per il Daelyn Pullover, ho diminuito ogni settimo ferro per un totale di 13 volte. Dopo l’ultima diminuzione, preferisco passare al gioco di ferri per fare il polsino (quelli in foto sono del 4.5 mm, di 0.5 mm in meno rispetto al lavoro principale). I punti infatti diventano pochi e per proseguire con i circolari dovrei stirarli lungo il cavetto, e non mi piace sollecitare il filato senza un vero bisogno. Tra l’altro, mi piace anche la gestualità che entra in gioco nel maneggiare questi cinque bastoncini.

Se per caso il numero di punti non è preciso, lo sistemo al primo giro di coste, in modo da ottenere un numero di punti pari (se progetto coste 1 x 1) o multipli di 4 (se ho in mente coste 2 x 2, come più spesso succede). Prima mi preoccupavo di arrivare al numero corretto prima di effettuare le coste, e ciò mi procurava inutili mal di testa. La mia amica Laura è una che tende alla semplificazione, e mi ha insegnato questo trucchetto. Il cielo sa quanto un ossessivo come me ha bisogno di amici knitter per limare le proprie rigidità!

Ad oggi so la lana perdona e che una scorciatoia qua e una là aiutano a rilassarsi e a godersi meglio quest’arte. E col tempo che risparmio posso bere uno spritz in più.

Il maglione

Il motivo principale per cui, anni addietro, iniziai a lavorare a maglia era il desiderio di realizzare un maglione. Per me, ma anche per la persona che avrei amato.

Trovo ci sia qualcosa di poetico nel lavorare incessantemente ad un progetto complesso per poi donarlo a qualcuno. In particolare, nel mio immaginario, il maglione è l’emblema del lavoro a maglia, il capo a cui tutti i principianti aspirano e che, una volta realizzato, fa dire: ce l’ho fatta. Per me ha anche il valore simbolico dello “stare addosso”, dell’abbracciare interamente chi lo riceve. È un po’ come stare con quella persona, anche quando si è lontani.

Dai miei primi passi di knitter sono passati ormai sette anni. Di maglioni ne ho fatti, alcuni seguendo schemi, la maggior parte usando metodi di costruzione Top Down ritagliati sulle mie misure (Fringe Association è stata la svolta).

Il lavoro attuale è un Daelyn Pullover della bravissima Isabell Kraemer, lavorato con uno splendido Felted Tweed Aran della Rowan, color Clay.

Il pattern mi ha fatto conoscere le German Short Rows, che all’inizio mi han spaventato ma dopo poco mi sono parse semplici e anche una bella trovata a dirla tutta, meglio delle Wrap and Turn. Un tentativo seguendo una taglia M non è andato a buon fine: tirava sotto le ascelle. Ho dovuto disfare, e seguire le indicazioni per una L. Mi sono sentito un po’ a disagio e ho ripensato ai vari gelati e biscotti Bahlsen che ingollo ogni sera davanti alla TV. Alla fine ho deciso che è colpa della lana, del campione, della Kraemer, dell’umidità, insomma di tutti tranne che mia, e ho proseguito con la L e dolciumi vari.

Dopo un tempo infinito per il corpo, che realizzo sempre per primo, le maniche stanno procedendo in modo spedito, complice il periodo di lockdown appena iniziato, che mi confina nei miei quarantadue metri quadri. Cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno. Forse per una volta finirò un maglione prima del solstizio d’inverno!